Il sintomo come messaggio
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Quando il corpo parla la lingua dei legami
Mi capita spesso, nel lavoro con i pazienti, di incontrare persone che arrivano in terapia con un sintomo ben preciso: ansia, attacchi di panico, difficoltà di concentrazione, insonnia, dolori fisici senza causa apparente o una stanchezza profonda e inspiegabile.
Il sintomo si presenta in prima linea, quasi volesse prendersi tutta la scena.
Chi ne soffre arriva spesso sfinito, con un unico desiderio: che smetta, che si spenga, che finalmente taccia.
In quei momenti, il sintomo sembra davvero avere una vita propria — una voce che parla al posto della persona, ma in un linguaggio che ancora non si comprende del tutto.
A poco a poco, però, quando iniziamo ad ascoltare quel linguaggio misterioso, qualcosa si svela.
Dietro il sintomo, spesso, non si nasconde un “guasto” personale, ma una storia che chiede di essere compresa.
È come se il corpo o la mente portassero in primo piano ciò che, nella vita quotidiana o nelle relazioni, non riesce più a trovare parola.
Talvolta il sintomo parla anche dei nostri legami — di ciò che abbiamo trattenuto per amore, o del peso di equilibri che custodiamo senza accorgercene.
In questo senso, il sintomo diventa un messaggero: ci invita a guardare con più gentilezza ciò che si è interrotto, ciò che chiede spazio o semplicemente ascolto.

Quando il sintomo viene ascoltato, qualcosa inizia a cambiare
In terapia sistemico relazionale non cerchiamo di mettere a tacere il sintomo, ma di ascoltarlo.
Spesso è proprio in quel momento — quando smettiamo di combatterlo — che inizia la trasformazione.
Il sintomo non è più un nemico da eliminare, ma una guida che ci accompagna verso ciò che abbiamo bisogno di vedere.
A volte porta alla luce emozioni rimaste sospese, altre volte mostra il bisogno di un nuovo equilibrio nei rapporti o nella propria vita interiore.
Quando questo messaggio viene riconosciuto, il sintomo cambia forma: si ammorbidisce, perde la sua urgenza, e lascia emergere un senso di pace che prima sembrava impossibile.
Non è un processo immediato, ma un cammino di conoscenza e riconciliazione con sé stessi.
Ogni volta che un paziente riesce a incontrare il significato del proprio sintomo, qualcosa dentro di lui si riallinea — mente, corpo ed emozioni tornano a parlarsi, e la persona ritrova la propria direzione vitale.

Dal sintomo alla consapevolezza
Ricordo una giovane donna che arrivò in terapia spaventata dai suoi attacchi di panico.
Diceva che tutto era iniziato all’improvviso: il cuore che accelerava, il respiro corto, la sensazione di perdere il controllo.
Di fronte al panico, la prima reazione è quasi sempre la paura. E avere paura della paura getta in un circolo di angoscia difficile da sostenere.
La paziente chiedeva una strategia, un compito preciso da svolgere, qualcosa che potesse “risolvere” quei segnali spaventosi del corpo.
Quella richiesta mi diede un indizio prezioso: Quanto spazio avevano occupato, nella sua vita, i compiti da svolgere? Era forse quella la lingua che conosceva meglio?
Insieme abbiamo esplorato la sua storia, fino a scoprire che fin da bambina era stata paragonata al fratello: brillante, efficiente, sempre all’altezza. Lui era il “fiore all’occhiello” della famiglia, e i suoi successi avevano finito per oscurarla.
Così, quasi senza accorgersene, Carolina aveva interiorizzato un’equazione semplice ma potente: essere prestante significa essere amati.
Da quel momento la sua vita divenne una corsa a superare ogni prova. Dopo la laurea con lode, gli studi all’estero il ritorno in Italia con una carriera brillante, divenne dirigente di una nota catena di negozi.
Quando arrivò in terapia, però, era sfinita. Triste, spenta, quasi disperata.
Dietro l’immagine di una donna di successo si nascondeva una domanda rimasta senza risposta:
Chi sono, se non sto performando?
Nel corso delle sedute, Carolina ha iniziato lentamente a riconoscere la stanchezza nascosta dietro la sua efficienza.
Ogni volta che cercava una nuova strategia per “fare di più”, la invitavo a fermarsi un istante, a respirare, a chiedersi: “e se non dovessi dimostrare nulla?”
All’inizio questa domanda la disorientava. Non sapeva chi sarebbe stata senza i suoi obiettivi, senza le sue eccellenze.
Poi, pian piano, è comparsa un’immagine diversa: la bambina che giocava senza dover vincere, che rideva senza sentirsi osservata.
Quel ricordo è diventato il suo punto di ritorno.
Non era più necessario correre per essere amata: poteva esistere anche nel silenzio, nella lentezza, nella semplice presenza.
Gli attacchi di panico hanno iniziato a diradarsi, come onde che si ritirano dopo la tempesta.
Non perché li avessimo “eliminati”, ma perché avevano finalmente compiuto il loro compito: riportarla a sé.
Oggi Carolina dice di sentirsi ancora in cammino — ma con una differenza: non corre più per arrivare, cammina per restare.
Forse è proprio questo il senso più profondo del sintomo: ricordarci la strada verso casa, quando l’avevamo dimenticata.
